Il legame tra gamification e brand per una startup di successo

“L’uso di elementi di game design in contesti diversi dal gioco”, recita tipicamente la definizione di gamification. Che cosa vuol dire? Significa estrapolare elementi ludici e trasportarli in contesti diversi, come quelli educativi o della conoscenza di un marchio o di un servizio. Del matrimonio tra gamification e marketing si parla da anni, ormai, ma le aziende e gli esperti del settore sono pochi, per non parlare di quanti lo applichino in modo efficace. Per comprendere meglio le strategie di gamification, abbiamo incontrato Francesca Papa, Head of Marketing presso Djungle e professionista del settore.

Djungle si occupa di sviluppare app che migliorano e stimolano l’interazione con gli utenti, prolungando l’esperienza d’acquisto anche al di fuori dello store. Com’è nata l’idea?

“Dalla necessità e dalla voglia di regalare ai clienti un’esperienza digitale originale, ingaggiante, ma anche di valore, che vada al di là di un rapporto basato esclusivamente sull’acquisto. «Più Candy crush, meno tessera del kebabbaro» è stato il nostro claim iniziale per insistere sulla necessità di arrivare al destinatario con esperienze coinvolgenti e di qualità, con la capacità di creare una community.

Djungle mira a coinvolgere gli utenti, offrendo loro la possibilità di essere parte attiva nell’interazione con il brand. La comunicazione è bidirezionale – il brand comunica con il cliente, ma è il cliente a decidere come e quando interagire con il brand. Un tipo di interazione continua che cresce nel tempo. Non il solito on/off del marketing tradizionale che avviene, spesso, attraverso piattaforme diverse (social, mail, store). Il primo progetto da cui tutto è partito è Flying Tiger, nostro partner ancora attualmente, per poi arrivare a community anche al di fuori dell’ambito retail”.

Secondo te, qual è il valore aggiunto che la gamification apporta nelle strategie di marketing?

“La gamification è parte di una rivoluzione culturale in atto, finalizzata alla creazione di nuove relazioni basate su interazioni frequenti e su coinvolgimento attivo. Il valore aggiunto che porta la gamification in fase di progettazione, per noi, è lo stimolo a pensare fuori dagli schemi e porre al centro dell’attenzione il futuro fruitore del servizio.

In Djungle utilizziamo come modello di riferimento l’Octalysis, un framework sviluppato da Yu-Kai Chou e finalizzato all’analisi di driver motivazionali che, attraverso un’esperienza interattiva, influenzano un individuo rispetto ai propri comportamenti. Tra questi driver rientrano elementi legati all’influenza e alle relazioni sociali, alla curiosità, alla voglia di evasione e all’esigenza di esprimere creatività, di superare sfide, di possedere qualcosa.

La tecnologia e il processo creativo basato su tecniche come la gamification porteranno le aziende digitali ad essere in grado di arrivare ad un livello di personalizzazione della relazione con i clienti elevatissima. Djungle, da tempo, sta portando avanti questa sfida. «Good design is good business», il design quando è buono fa bene al business, diceva il più famoso chairman di IBM, Thomas J. Watson. «Good games are good business», potremmo dire oggi!”.

Si può “gamificare” un brand? E se sì, come?

“Non per tutti i brand investire in attività di engagement attraverso tecniche di gamification è efficace e strategico. Prima di avviare un progetto, il team di business analyst lavora a modelli predittivi sulle community del brand per valutarne gli impatti e i chiari ritorni di investimento che può avere l’operazione.

Gamification non vuol dire, come spesso si pensa, occuparsi o proporre agli utenti giochi, ma progettare esperienze ad alto potenziale di engagement, partendo dalla conoscenza di chi si ha davanti, dai bisogni sottostanti e da cicli frequenti di feedback e validation, basati su un’interazione continua di valore.

La metodologia e la tecnologia Djungle sono applicabili in tutti i contesti in cui il digital incontra il fisico. L’esperienza, definita dal neologismo phygital, incentiva il cambiamento dei comportamenti dell’utente in favore di esperienze digitali, da attuarsi nel mondo fisico (ad esempio, scansionare uno scontrino) e si applica molto bene a contesti in trasformazione digitale in evoluzione. 

Questa metodologia è già oggi applicata in settori molto differenti, dal retail con la catena Flying Tiger Copenhagen alle smart city con Planet Idea“.

Djungle’s beacon

Avete lanciato una call for innovation per individuare un unico cliente cui dedicarsi al 100%. Ci spieghi come funziona il bando?

Startup chiama corporate è una call to action «al contrario», che parte dalla startup per arrivare alla corporate con un obiettivo specifico: trovare l’azienda disposta ad investire nel digitale e nella relazione con la propria community.

Affinché ci sia innovazione reale è essenziale che il brand abbia alcuni requisiti che possano rendere possibile il percorso di innovazione che Djungle propone. Quali sono?

  • L’identità del brand,
  • le potenzialità della community su cui costruire l’esperienza digitale,
  • il mix di punti vendita fisici e online,
  • il mindset,
  • l’organizzazione aziendale.

Ecco perché chiediamo ai brand di fare una vera e propria application e spiegarci perché dovremmo scegliere proprio quel marchio. Djungle si dedica completamente al progetto, scegliendo un solo nuovo cliente ogni anno e vuole essere certa che il brand, la corporale con la quale andrà a lavorare, abbiano la voglia di innovare e il mindset giusto per intraprendere questo percorso e fare la differenza nel digital.

Nell’azienda in cui lavoro, il team è il vero asset, investiamo molto in formazione delle risorse, abbiamo un personal coach agile che forma i nuovi arrivati con un programma personalizzato. Ci alleniamo per migliorare costantemente le nostre conoscenze nelle arti digitali; proprio perché formare team scelti è un’attività dispendiosa, possiamo scegliere pochi progetti, ma ad alto potenziale”.

Attività realizzata per Flying Tiger

Pratiche, tools, processi lean: che cosa significano in concreto queste parole per Djungle?

“Djungle ha consolidato nel tempo un modo di lavorare basato sui principi del pensiero agile, che gli consentono di accompagnare il brand in un percorso di scoperta e validazione dei bisogni reali dei propri clienti nella costruzione dell’esperienza digitale. Ci sono vere e proprie fasi che il brand attraversa nel percorso con Djungle, di scoperta, di testing e feedback da parte del cliente ultimo, fino ad arrivare alla realizzazione del prodotto finale.

Il processo di creazione dell’idea è il vero nocciolo della questione: micro team di due o tre persone lavorano per validare sul mercato le ipotesi e ottenere informazioni e feedback dagli utenti. Più validazioni riusciamo a fare, più aumenta la probabilità di disegnare il miglior servizio per i nostri clienti”.

Cosa significa per voi essere una “startup boutique” con alle spalle vent’anni di esperienza?

“Boutique perché vogliamo dedicarci ad un solo nuovo cliente all’anno e mettere a disposizione del brand tutte le conoscenze, skills ed expertise di cui ha bisogno, per attivare un processo dirompente di innovazione. Djungle si fa responsabile dell’esperienza digitale end to end – dall’ideazione fino all’engagement dell’utente finale, coprendo tutte le fasi di sviluppo del progetto. Abbiamo consolidato negli anni un team di 18 persone, che si conosce da anni e che si contraddistingue per la seniority, per la ricchezza delle esperienze e per il mix di skills ed expertise unico.

Molte startup partono portando a bordo giovani spesso alla prima esperienza. I primi dipendenti di Djungle, invece, sono tutte figure professionali con vent’anni di esperienza alle spalle, in start-up di successo e/o grandi aziende, che ora hanno anche il ruolo di formatori per le figure più giovani”.

La gamification è anche il tema del prossimo ECOffee con Nicolò Santin, che ha innovato il settore in Italia, fondando Gamindo, aggregatore di videogiochi brandizzati. Vi aspettiamo martedì 6 ottobre, alle ore 14e30 su Media Intelligence Arena! 😉

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